Sulla mina immigrati troppi slogan e poche idee - Il Sole 24 ORE13 giugno 2009
di Alberto Alesina
In un periodo di forte recessione con disoccupazione in aumento, ci si poteva aspettare una vittoria della sinistra, teoricamente più attenta alle esigenze dei più poveri e dei disoccupati. Invece le elezioni europee di domenica scorsa le hanno vinte le destre, in qualche caso xenofobe. In Italia ha vinto più la Lega che il Popolo della libertà, per non parlare del Partito democratico. L'interpretazione è chiara: gli europei si sentono abbastanza tranquilli per quanto riguarda la crisi perché protetti da un welfare state già generoso (altrove meglio che in Italia) mentre ciò di cui sono veramente preoccupati è l'immigrazione. Finché il centrosinistra europeo non dimostrerà di avere qualche idea concreta su come affrontare questo problema, o almeno di riconoscerlo come tale, è destinato a un continuo declino.
Ma non è solo per il futuro della sinistra che non si può più aspettare a comprendere e affrontare il fenomeno immigrazione e il fatto che l'Europa, Italia compresa, sta diventando sempre più multietnica. Non possiamo lasciare che il problema sia trattato a slogan: da una parte rozze chiusure, dall'altra una Chiesa cattolica che aprirebbe le porte a tutti. Anche se comprensibile da un punto di vista morale, ciò è impossibile in pratica, dato che vi sono 700 milioni di africani potenziali migranti a poche miglia dalle nostre coste.
Bisogna partire dai dati e raccoglierne altri. Gli immigrati legali in Italia producono la loro fetta di reddito nazionale in misura più che proporzionale al loro numero. Molti di loro sono al Nord, e nonostante le grida della Lega aiutano l'economia del Centro Nord che da anni è vicina alla piena occupazione, e in cui molti lavori non sarebbero svolti comunque dagli italiani. Fra l'altro, in anni recenti i salari degli immigrati sono scesi molto di più della media. È inutile che ci si illuda, come fa la sinistra, che solo per il fatto che una persona diventi italiana, francese o olandese si assimili immediatamente e che l'idea di "stato-nazione" prevalga come per magia. Difficoltà di rapporti tra gruppi etnici continueranno a lungo, come dimostra la storia degli Stati Uniti, dove tutti si sentono americani ma anche, almeno in parte, italiani, irlandesi, latinoamericani, cinesi, neri. I paesi europei sono storicamente lontani dal melting pot, ma saranno sempre più multietnici e in parte già lo sono.
Qualche tempo fa la Lega propose classi differenziate per immigrati, per facilitarne l'apprendimento dell'italiano. È una buona idea? Non lo so, ma so che la risposta dovrebbe venire da studi e da esperimenti in cui alcuni bambini vengano messi in classi differenziate e altri no, per poi valutare i risultati. Così si studia un problema sociale e così si trovano politiche adeguate. Invece il dibattito procede a colpi di slogan. Da una parte (sinistra e Chiesa) un'alzata di scudi preconcetta come se questa fosse una proposta necessariamente discriminatoria. Dall'altra posizioni rozze che finiscono con l'alimentare i sospetti.
Spesso l'immigrazione clandestina e quella legale sono mescolate in un unico discorso, come si trattasse in fondo dello stesso fenomeno. Non lo sono. Politiche, anche vigorose, di eliminazione dell'immigrazione illegale sono perfettamente compatibili con politiche di apertura all'immigrazione legale in funzione delle necessità del mercato del lavoro, in un paese, fra l'altro dall'andamento demografico assai avverso. Sappiamo quale tipo e quanti immigranti il nostro mercato del lavoro può assorbire? Studiamolo.
Le elezioni europee confermano ciò che da tempo si sospettava. Il problema dell'immigrazione in Europa rischia di esplodere se le forze più ragionevoli di centrodestra e centrosinistra non lo portano al centro delle loro analisi e di proposte concrete e realistiche.
13 giugno 2009
micromega - micromega-online » È l’immigrazione, bellezzaElezioni europee
di Tito Boeri, lavoce.info, 9 giugno 2009
Perché i partiti socialdemocratici crollano in tutta Europa proprio in un periodo di recessione? La risposta è nei 26 milioni di immigrati nell'Unione Europea negli ultimi anni. I cittadini sono preoccupati per la sostenibilità del welfare state europeo. E se la soluzione sembra essere in più rigide politiche sull'immigrazione e nelle limitazioni all'accesso allo stato sociale, le coalizioni di destra sono decisamente più credibili. Ma sono politiche inattuabili nel lungo periodo. Esistono alternative ben più efficaci. Senza rinunciare alla redistribuzione.
Le recessioni di norma favoriscono i partiti di sinistra. Il loro appoggio a politiche redistributive è percepito dagli elettori come una forma di assicurazione: durante la crisi si perde il lavoro o si diventa più poveri, ci sarà qualcuno “lassù, al governo” che si preoccuperà di garantire una forma di aiuto di carattere sociale. “Nessuno sarà lasciato indietro” è il motto dei socialdemocratici e il contenuto dell’universalismo nelle prestazioni sociali da loro sostenute. L’età dell’oro dei socialdemocratici nel Parlamento europeo è stata a metà anni Novanta, quando l’Unione Europea aveva tassi di disoccupazione a due cifre e usciva da una pesante recessione. La supremazia del gruppo socialista a Strasburgo è finita quando la disoccupazione ha iniziato a convergere verso i livelli degli Stati Uniti e il tasso di occupazione ad avvicinarsi agli obiettivi di Lisbona. E invece, questa recessione, la più grave del Dopoguerra, è andata di pari passo con l’affermazione elettorale di movimenti di destra e xenofobi in tutto il Vecchio Continente e con la disfatta proprio di quei partiti che storicamente hanno contribuito di più alla costruzione del welfare state europeo.
UN'ARMA DI ESCLUSIONE SOCIALE DI MASSA
Com’è potuto accadere? La risposta è l’immigrazione. Negli ultimi venti anni più di 26 milioni di persone sono arrivate nell’Unione Europea a 15 contro i poco più di 20 milioni di emigrati negli Stati Uniti, di 1,6 milioni in Australia e meno di un milione in Giappone. Dal 2000, paesi come l’Irlanda e la Spagna, ora particolarmente colpiti dalla crisi, hanno visto raddoppiare il rapporto tra popolazione straniera e indigena. Certo questi flussi sono precedenti alla recessione e, anzi, durante la crisi l’immigrazione tende a diminuire: approssimativamente del 2 per cento per ogni punto percentuale di caduta del prodotto nel paese di destinazione. Ma a preoccupare gli europei è la combinazione di una forte e recente immigrazione, della recessione e del welfare state. I dati dell’European Social Survey rivelano un marcato deterioramento della percezione dei migranti da parte degli europei a partire dal 2002. Questo deterioramento è dovuto alla preoccupazione che gli immigrati siano un peso fiscale in quanto beneficiari dei generosi trasferimenti di carattere sociale garantiti dall’Europa, “la terra della redistribuzione”. Paradossalmente, le politiche redistributive introdotte con l’obiettivo di favorire l’inclusione sociale sono diventate un’arma di esclusione sociale di massa. Ora che i deficit pubblici salgono alle stelle e la disoccupazione torna su livelli a due cifre, gli autoctoni hanno la legittima preoccupazione che anche i più strenui difensori delle politiche redistributive saranno costretti a tagliare le prestazioni sociali, a meno che non riescano a limitare l’immigrazione o almeno l’accesso degli immigrati al welfare. Ma per motivi ideologici, i partiti di sinistra non possono perseguire politiche che introducono barriere o un accesso asimmetrico al welfare per gli immigrati. Le coalizioni di destra e i movimenti xenofobi sono più credibili dei socialdemocratici nel perseguire politiche di questo tipo. L’Italia di destra e la Spagna di sinistra ne sono un buon esempio. In Italia, dai trasferimenti sociali ai poveri sono esclusi a priori coloro che non hanno un passaporto italiano, indipendentemente dal fatto che siano immigrati legali o clandestini e che abbiano pagato le tasse. Intanto, le barche dei disperati vengono respinte verso la Libia e nessuno sa dove da saranno portate queste persone. In Spagna i trasferimenti sociali sono estesi ai cittadini stranieri e di recente il governo ha pubblicato un rapporto che documenta il contributo decisivo dato dall’immigrazione nel boom economico degli ultimi dieci anni. Il Ministero del Lavoro è stato ribattezzato Ministero del Lavoro e dell’Immigrazione. Non è il Ministero degli Interni, come da noi, ad avere la titolarità di queste politiche.
LE ALTERNATIVE POSSIBILI
La faccia rassicurante dei socialdemocratici si sta trasformando in un incubo proprio per quei cittadini europei che rappresentano il loro elettorato tradizionale: operai, persone con reddito basso o che vanno avanti grazie ai sussidi del welfare. Devono quindi i socialdemocratici rinunciare ai loro ideali opure rassegnarsi a scomparire? Non necessariamente. In primo luogo, non è affatto detto che le misure volte a rendere più rigide le politiche sull’immigrazione e a limitare l’accesso al welfare per gli immigrati rappresentino la risposta migliore alle preoccupazioni dell’opinione pubblica al di là del brevissimo periodo. La recessione è destinata a durare a lungo, e non è semplice mettere in pratica le restrizioni all’immigrazione, come dimostra l’alto numero di immigrati illegali che vivono nell’Unione Europea. E’ difficile anche limitare l’accesso al welfare da parte degli immigrati: l’esperienza degli Stati Uniti ci dice che queste restrizioni possono essere ribaltate dai pronunciamenti dei tribunali, in particolare in quei paesi dove l’immigrazione è già forte e consolidata.
Così anche le politiche oggi premiate dagli elettori possono non dare quei risultati rassicuranti che promettono. Invece di imitare i loro avversari, i socialdemocratici dovrebbero cercare di riformare i loro programmi di welfare rendendoli maggiormente proattivi e rafforzandone le basi assicurative. Questo significa che la possibilità di ricevere i sussidi deve essere subordinata al pagamento dei contributi (gli immigrati sono ovunque contribuenti netti) e che gli abusi debbono essere sanzionati sia sotto il profilo sociale che amministrativo. La Danimarca e la Svezia sono i paesi che hanno fatto i passi più importanti nella riforma delle politiche sociali in questa direzione: è solo un caso che i partiti di centrosinistra di questi due paesi siano le uniche formazioni politiche pro-welfare a non essere state sconfitte in queste elezioni europee?
(10 giugno 2009)
VERS UNE EUROPE FORTERESSE :: Le Courrier :: Quotidien suisse indépendant
Paru le Lundi 08 Juin 2009
CARLO SOMMARUGA*
Contrechamp MIGRATIONS - Les politiques coercitives menées par la Suisse et l'Union européenne s'avèrent incapables de réguler les flux migratoires. Agir sur les causes des migrations de masse passe nécessairement par la refondation du système économique mondial.
Aujourd'hui, les personnes en mouvement de par le monde sont plus nombreuses qu'elles ne l'ont jamais été. On recense en effet plus de 200 millions de migrants internationaux, ce qui représente environ 3% de la population mondiale. Bien que le chiffre soit difficile à estimer, selon une étude de l'ONU de 2005, 20 à 30 millions de migrants se trouvent en situation illégale, ce qui représente 10% à 15% de la population mondiale de migrants. Selon l'Organisation internationale des migrations, trois millions de personnes vivent en situation irrégulière en Europe. En Suisse, selon une étude de 2005, entre 80 000 et 100 000 personnes seraient sans-papiers, parmi lesquelles 12 000 à 15 000 dans le canton de Vaud et 8000 à 10 000 dans celui de Genève. Face à cette réalité, aucun Etat – ou groupement d'Etats comme l'Union européenne – ne peut faire l'économie d'une réflexion approfondie sur la question des migrations. La réflexion doit être globale. Elle doit intégrer non seulement la dimension de l'apport humain, social et économique de la migration pour les sociétés et les économies des pays d'accueil, mais aussi et surtout l'impact de cette migration pour la communauté humaine des pays d'origine. Cette réflexion doit également porter sur le cadre fixé à la migration légale et, plus encore, sur le traitement de la migration irrégulière, tout particulièrement sur les mécanismes de régularisation des sans-papiers. Enfin, il faut définir avec humanité une politique d'asile.
Ces dernières années, en raison du rapprochement avec l'Union européenne, la question migratoire en Suisse a progressivement changé de visage. Rappelons que ce rapprochement s'est matérialisé par l'acceptation, le 21 mai 2000, de l'accord de libre-circulation des personnes et par l'acceptation, le 5 juin 2005, de l'entrée de la Suisse dans l'espace Schengen-Dublin. Résultats? L'Européen est devenu un alter ego et les frontières se sont effacées à travers le continent. Mais parallèlement à cette ouverture, la Suisse et l'Union européenne se rejoignent dans un mouvement inverse: une véritable forteresse européenne se construit à notre insu.
Dans cette Europe forteresse, la criminalisation rampante des liens personnels et de solidarité avec les sans-papiers ou les requérants d'asile déboutés devient la règle. Ainsi, l'on ne peut éviter d'évoquer le cas de Jennifer, cette Française de vingt-trois ans qui, alors qu'elle diligentait à la préfecture les procédures en vue de son mariage, a vu son futur époux sans-papiers expulsé vers le Maroc et elle-même être renvoyée devant le Tribunal pour avoir hébergé un sans-papiers1. En Suisse, la situation n'est guère meilleure: après le Conseil National, le Conseil des Etats vient d'accepter, lors de la session en cours, la loi inspirée par la proposition du président de l'UDC visant à interdire la célébration de mariages avec des sans-papiers résidant en Suisse.
La «Directive européenne du retour», dénoncée par les organisations de défense des droits humains et de défense des migrants dans toute l'Europe comme «la directive de la honte», trouve son pendant plus dur encore en Suisse. En effet, alors qu'en Europe une personne peut être privée de liberté en vue de son refoulement jusqu'à dix-huit mois – sans même qu'il y ait eu d'infraction pénale –, en Suisse la loi sur les étrangers permet une détention administrative de vingt-quatre mois. Un nouvel échelon de cette fermeture sidérante de l'Europe a encore été atteint dernièrement: au début du mois de mai, malgré les appels à la raison de philosophes et des églises, le Parlement italien a adopté une réforme du droit pénal permettant de condamner le migrant foulant le sol italien de manière irrégulière à des amendes allant jusqu'à 10 000 euros. Absurdité totale dès lors que ces personnes sont issues de la misère et que de telles sanctions ne mettront pas fin aux flux migratoires.
En ce qui concerne le droit d'asile, c'est le désordre total. Il est en effet scandaleux que, selon le type de persécution ou le pays d'origine du requérant, l'asile soit accordé dans certains pays et refusé dans d'autres. Le cas de Fahad Kammas, devenu héros malgré lui du film de Fernand Melgar La Forteresse, est exemplaire. Ce traducteur irakien au service de l'armée américaine avait demandé l'asile politique d'abord à la Grèce – qui n'accorde pas l'asile aux Irakiens –, puis à la Suède et enfin à la Suisse. En vertu de l'accord de Dublin, il a été renvoyé en Suède où sa demande d'asile avait été rejetée en raison de la décision préalable de la Grèce, alors que son cas remplissait parfaitement les conditions d'octroi de l'asile en Suisse. Au-delà des questions de procédure, il est urgent que les pays européens unifient le droit d'asile. Toutefois, cette unification ne doit pas être le prétexte pour un nouveau tour de vis du droit d'asile.
Par ailleurs, depuis 2008, la Suisse participe à l'Agence européenne de contrôle des frontières FRONTEX. Cette agence est le lieu de la coopération et de la solidarité entre les Etats européens dans le contrôle des frontières extérieures. Il est donc juste d'un point de vue institutionnel et de solidarité avec les Etats européens que la Suisse y participe. Mais n'oublions pas que derrière sa devise «Libertas Securitas et Justicia», FRONTEX est la muraille réelle et concrète de la forteresse européenne: patrouilles sur terre ou sur mer, installations high-tech de détection de mouvement, radars, caméras, caméras infrarouges, grillages, autant de moyens de repousser l'étranger loin de nos frontières.
La concrétisation de ce contrôle, bien lointaine des préoccupations quotidiennes des citoyens européens et invisible pour l'écrasante majorité de ceux-ci, est terrifiante. Ainsi, la ville espagnole de Melilla sur terre africaine est entourée par un double système de grillages ponctué de miradors de verre et de béton, l'ensemble ayant été financé par l'Union européenne. Le tout est sévèrement contrôlé par la garde civile espagnole qui dispose d'un système électronique de détection hautement sophistiqué. La situation n'est pas très différente à Ceuta, où en 2005 la garde civile espagnole a tiré sur des migrants en faisant cinq morts. A la frontière Est de l'Union européenne avec l'Ukraine, c'est la mise en place de caméras infrarouges tous les 186 mètres en moyenne qui s'accompagne de patrouilles mixtes incluant les Ukrainiens. Les milliers, voire les dizaines de milliers, d'immigrants irréguliers en provenance d'Asie sont ainsi bloqués ou refoulés dans les 48 heures vers l'Ukraine où ils vivent dans des conditions effroyables dans l'attente de nouveaux essais de franchissement de la frontière. Mais FRONTEX, c'est aussi les collaborations avec la Libye et le refoulement vers ce pays de centaines de personnes sans même l'examen de leur demande d'asile, alors que la Libye – connue pour son arbitraire – n'a pas signé la Convention de Genève du 28 juillet 1951 relative au statut des réfugiés.
Aujourd'hui, il est permis de douter que les politiques adoptées par la Suisse et l'Union européenne aient l'impact recherché sur les flux migratoires. Il est en effet certain que ces flux ne tariront que si l'on s'attaque préalablement aux motifs qui poussent des millions d'enfants, d'adolescents, d'hommes et de femmes à tout quitter pour le terrible et dramatique exode vers un lointain et virtuel Eldorado. Il en est des flux migratoires comme des cours d'eau: s'ils ne tarissent pas, aucun barrage – quelle que soit sa taille ou sa solidité initiale – n'évitera le débordement et ne résistera à long terme, sauf à ouvrir les vannes. A cet égard, rappelons qu'en l'an 2000, 50% de la richesse mondiale appartenait aux 2% les plus riches, alors que plus d'un milliard de personnes subsistaient avec moins d'un dollar par jour. Par ailleurs, en 2009, un quart des enfants de moins de cinq ans dans les pays en développement souffrent toujours de malnutrition, 11 millions d'enfants meurent chaque année avant d'avoir atteint l'âge de cinq ans et 115 millions d'enfants en âge d'être scolarisés n'ont pas accès à l'éducation. Voilà les causes de l'émigration de masse auxquelles s'ajoutent les guerres et les catastrophes environnementales, et auxquelles il convient de répondre en priorité.
Avant la définition de toute politique migratoire, il y a nécessité de repenser les fondements du système économique mondial actuel, générateur de nombreuses injustices et d'immenses souffrances. Cette refondation du système est demandée avec de plus en plus d'insistance par de multiples acteurs de la scène internationale, partout dans le monde: les altermondialistes, les petits paysans, les mineurs exploités, les ouvriers au chômage ou encore les Prix Nobel tels que Muhammad Yunus et Joseph Stiglitz. Le blocage des négociations du Cycle de Doha à l'Organisation mondiale du commerce (OMC), le maintien de la mainmise des puissances industrielles sur le Fonds monétaire international (FMI) et la Banque mondiale, de même que la non-tenue des engagements en matière de développement – soit l'attribution du 0,7% du Revenu national brut (RNB) à l'aide publique au développement, notamment en vue de réduire de moitié la pauvreté dans le monde d'ici 2015 – montrent que nous sommes encore loin de toute refondation économique, sociale et politique au niveau mondial, pourtant indispensable à réduire les inégalités, les tensions sociales, le protectionnisme, les nationalismes et les guerres.
Pour un Européen convaincu, ayant un regard critique et lucide sur la face cachée des politiques institutionnelles, il est difficile de continuer à promouvoir un rapprochement permanent et l'adhésion à l'Union européenne. Toutefois, ce rapprochement institutionnel est inéluctable. C'est uniquement dans l'espace européen que la bataille politique, sociale et syndicale doit être menée pour renverser la logique libérale actuelle et développer une économie et une société fondée sur les valeurs d'humanité, de solidarité et de partenariat. Cette refondation de l'équilibre mondial sera le seul moyen susceptible de résoudre à la racine le déséquilibre économique et l'injustice sociale et donc le problème des migrations internationales. * Conseiller national Soc./GE. Ce texte est issu du discours de Carlo Sommaruga, prononcé dans le cadre du 7e Dialogue européen de la Fondation Jean Monnet, Lausanne, 15 mai 2009.
1 Cf. Le Monde, 7 mai 2009.
Note : * Conseiller national Soc./GE. Ce texte est issu du discours de Carlo Sommaruga, prononcé dans le cadre du 7e Dialogue européen de la Fondation Jean Monnet, Lausanne, 15 mai 2009.
1 Cf. Le Monde, 7 mai 2009
LeTemps.ch | Une démocratie risquéeAnalyse samedi6 juin 2009
Par Denis Masmejan
Quelle est la place des initiatives contraires au droit international?
Analyse
Le débat sur la validité ou non de l’initiative a souligné une nouvelle fois la nécessité d’élaborer une doctrine pour apporter des réponses cohérentes à une question très complexe sur le plan juridique et politiquement délicate: faut-il ou non continuer à soumettre au vote populaire les initiatives qui violent le droit international et comment, en cas de vote positif, en assumer les conséquences?
Des clarifications seront apportées ces prochains mois par le Conseil fédéral, qui s’est engagé à rendre un rapport à ce sujet. Les données du problème sont connues: à s’en tenir à sa lettre, la Constitution paraît limiter les possibilités d’invalider les initiatives populaires contraires au droit international au cas où ces dernières ne pourraient être appliquées sans violer un petit noyau dur de règles juridiques réputées communes à l’ensemble des nations et auxquelles celles-ci ne sauraient déroger – qui vont de la prohibition des crimes de guerre à l’interdiction de la torture.
Scénario impensable
Bien que la question soit discutée, il n’y a pas eu jusqu’ici de consensus pour faire figurer au nombre des règles impératives l’ensemble des libertés fondamentales garanties par plusieurs accords, dont la Convention européenne des droits de l’homme. Le Conseil fédéral s’est toujours prévalu de cette conception pour justifier que des initiatives contraires à la convention européenne soient malgré tout soumises au vote populaire, mais n’a jamais été clair sur les conséquences qu’il convenait d’en tirer si l’initiative venait à être acceptée, et la Constitution ne l’est pas davantage. Ni le gouvernement ni les Chambres n’ont en tout cas jamais évoqué la dénonciation de la convention – la Suisse serait la première à le faire depuis la Grèce des colonels. Une renégociation à la baisse paraît en outre irréaliste, et aucune réserve ne peut être acceptée après coup.
La Suisse s’apprête donc, une nouvelle fois après le scrutin de 2004 sur l’internement à vie et après celui de l’an dernier sur les naturalisations par les urnes, à voter sur un texte dont la mise en œuvre la mettrait, au moins virtuellement, en contradiction avec ses engagements internationaux, sans que personne ait une vue très claire de la manière dont la contradiction devrait être surmontée.
On attend du rapport à venir du Conseil fédéral qu’il y apporte une réponse circonstanciée. Pour les juristes, il est hors de doute que le droit international est de toute façon appelé à l’emporter au final, car rien ne permet de penser que la Suisse se soustrairait à un jugement de Strasbourg. La question reste donc de savoir jusqu’où la contradiction entre une initiative et le droit international est un risque inhérent à la démocratie dont il faut s’accommoder. Un risque dont certains observent qu’il n’est pas propre qu’à la Suisse et que s’il venait au président de la République française de faire voter une révision de la Constitution contraire à un traité, rien, aucun mécanisme juridique n’y ferait obstacle, le Conseil constitutionnel n’étant pas le juge de la conformité de la Constitution au droit international.
LeTemps.ch | L’Europe aux prises avec l’immigration de masseAnalyse mercredi3 juin 2009
Emmanuel Garessus
L’Europe est pour la première fois de son histoire un continent de migrants. 40 millions sont nés dans un autre pays. Plus de 10% du total. L’effet de taille compte énormément, écrit Christopher Caldwell, éditorialiste au «Financial Times»*
L’Europe est pour la première fois de son histoire un continent de migrants. 40 millions d’habitants sont nés dans un autre pays. Plus de 10% du total. L’effet de taille compte énormément, écrit Christopher Caldwell, éditorialiste au Financial Times*. On dénombre 15 à 17 millions de musulmans en Europe. C’est unique dans l’histoire. Et cette immigration constitue le plus grand problème que rencontre l’Europe. Il est frappant de constater le manque de confiance de la démocratie, sa plus importante valeur morale, à le traiter, écrit-il. Si l’Europe accueille davantage d’immigrants que ses citoyens ne le souhaitent, c’est une bonne indication que la démocratie fonctionne mal. Dans ce contexte de «confrontation avec l’islam», il dépeint des Européens de souche qui «se sentent exclus chez eux, victimes d’une OPA culturelle» et propose ses propres pistes.
Continue...
ekathimerini.com | Our migrants and the others
By Paschos Mandravelis
Any discussion on migration inevitably includes the wave of Greek migration abroad in the 1950-70 period and the discussion normally ends with the aphorism: “Yes, but our migrants behaved differently.”
Though containing a grain of racism, this is mostly true. “Our” migrants did indeed behave differently. Why? Are Greeks genetically endowed with good behavior? If so, why does this only come out abroad and not on the streets of Athens?
On February 3, 2006, an Islamic organization held a rally outside the Danish Embassy in London in protest at the controversial sketches published in Denmark of the Prophet Muhammad. Their placards read chilling messages like “Death to the infidels” and “Remember 9/11,” yet not a single incident occurred. Not a single stone was thrown, not a single fire lit nor store window smashed. In contrast, during the protests in Athens last Friday against a similar event – an insult to a symbol of Islam – there were no scary banners but stones were thrown, shop windows smashed and fires lit.
So, here we have two rallies by people of the same religion, against a similar incident but with very different results. The London protest was a very British affair – sharp words, no violence – and the Athens protest was typically Greek – resulting in chaos.
What this tells us is that, to a great degree, migrants adopt the behavior of their host country. Greek migrants of the past had their own distinct identities but, in contrast to how they would behave in their own country, they would never litter the streets of their host country. They knew the law stood for them as much as it did for the locals. In a country like Greece, where lawlessness is pretty much the norm, the migrants here adapt accordingly and therefore contribute to the problem. Their trash in the street is no different to ours, they simply increase the volume. The only way to solve many of the problems that migration brings is to enforce the law, and not just on migrants but first on the Greeks.
UGUALE PER TUTTI: I diritti e la dignità dell’uomo
di Giovanni Maria Flick
ex Presidente della Corte Costituzionale
Veniamo da un passato nel quale il riconoscimento e la tutela dei diritti umani erano affidati agli Stati nazionali.
Eppure le violazioni di quei diritti sono state reiterate, macroscopiche e devastanti, fino a culminare nella Seconda guerra mondiale: le armi di distruzione di massa; il coinvolgimento generalizzato dei civili; soprattutto, la Shoah.
Per questo, da quel “crogiolo ardente” (come lo definì uno dei padri costituenti, Giuseppe Dossetti) nacquero l’internazionalizzazione del diritto costituzionale, il riconoscimento della persona sulla scena internazionale, la tutela giudiziaria sovranazionale dei diritti umani, l’ingerenza umanitaria.
Soprattutto, nacque l’esigenza di affermare la dignità della persona, nelle dichiarazioni sovranazionali e nelle costituzioni nazionali.
Viviamo un presente nel quale l’aggressione alla dignità umana - sotto forme nuove, ma sempre uguali - è incombente.
Basta guardare alla crisi globale, ai suoi effetti sui livelli di povertà, individuali e collettivi, e sul diritto-dovere al lavoro, premessa della dignità secondo la nostra Costituzione.
Basta guardare ai crescenti assalti all’Europa, “fortezza del benessere”, da parte di una immigrazione di massa in fuga dalla fame, la sete, la guerra.
Nel Mediterraneo rischia di naufragare, con i migranti, le loro speranze e la loro dignità, anche la tradizione europea di accoglienza e sensibilità per i diritti umani.
Andiamo verso un futuro di insidie per la dignità, non meno preoccupanti di quelle tradizionali e sempre presenti, come il razzismo e l’intolleranza: penso agli abusi nella gestione delle informazioni sensibili, e agli eccessi della tecnologia medica.
Il terrorismo globale minaccia di essere sempre più coinvolgente e fanatico; ma, in nome della sicurezza e del contrasto al terrorismo, anche la soglia di rispetto dei diritti fondamentali della persona si abbassa sempre più.
Leggere il passato, il presente e il futuro attraverso le lenti della dignità, regala margini di speranza, perché consente di coglierne la perenne attualità e la stabilità del suo nucleo fondamentale; ma anche di riflettere sulla moltiplicazione degli ambiti in cui ne viene richiamato il rispetto; di trarre dalla lezione della storia, indicazioni per affrontare le nuove istanze di aggressione e di tutela.
La Dichiarazione universale ci ricorda che «tutti gli esseri umani nascono eguali in dignità e diritti»; ma all’uguaglianza si affiancano le differenze oggettive e ineliminabili di cui ciascuno è portatore.
Queste ultime contribuiscono a formare la sua identità; esprimono il pluralismo e il personalismo: valori non meno importanti dell’eguaglianza.
L’apparente contraddizione tra eguaglianza e diversità si risolve nel riconoscimento della pari dignità, come nell’articolo 3 della nostra Costituzione: le differenze non possono rappresentare ostacoli insuperabili, o giustificare condizioni di inferiorità, sopraffazione, discriminazione.
Gli ostacoli vanno affrontati e rimossi per consentire la libertà e l’eguaglianza di ciascuno (non solo dei cittadini: delle persone) e il pieno sviluppo della persona umana: per realizzare la pari dignità sociale.
In tal modo la dignità fa giustizia della pretesa - troppo frequente - di utilizzarla come pretesto per imporre comportamenti e conformismi generalizzati; per non rispettare il diritto di ciascuno alla diversità e al dissenso, alla sua identità e libertà.
Sempre che, beninteso, la libertà si esprima nel rispetto dell’altrui dignità e dei “valori condivisi” (quelli della Costituzione) posti a presidio della civile convivenza.
La stretta connessione fra gli articoli 2 e 3 della Costituzione evidenzia un ulteriore aspetto della pari dignità: l’essere un ponte fra i diritti inviolabili e i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
L’azione di contrasto agli ostacoli che impediscono la concretezza e l’effettività della pari dignità sociale, si realizza solo mobilitando il valore costituzionale della solidarietà, altrettanto essenziale.
Assieme alla reciprocità fra diritti e doveri, la solidarietà esprime il bisogno di coesione nella comunità, che trova soddisfazione nell’apporto reciproco, nella socialità, nella solidarietà.
La pari dignità lega i molteplici diritti umani e rappresenta il parametro per attribuire contenuto specifico e concreto a ciascuno di tali diritti.
In modo esplicito - per evidenti ragioni di storia e coscienza collettiva, dopo la Shoah - la Costituzione tedesca pone la dignità umana in apertura, come valore generale e premessa di tutti i diritti.
La Costituzione italiana, invece, pone la dignità come indice di concretezza dell’eguaglianza; la richiama esplicitamente come parametro della retribuzione e come limite alla libertà di iniziativa economica; lo fa in modo implicito a proposito della libertà personale, della responsabilità penale, del diritto all’autodeterminazione sanitaria.
Il diverso approccio costituzionale alla dignità, non si traduce in una diversa gerarchia di apprezzamento: anche nella Costituzione italiana la dignità esprime la saldatura fra eguaglianza, libertà e solidarietà; riassume e concretizza gli altri valori costituzionali e coglie il legame fra i diritti fondamentali, sottolineandone l’universalità, l’indivisibilità, l’effettività.
Infine, l’impegno ad attuare i diritti fondamentali non riguarda soltanto la dimensione statale e sovranazionale, come finora è avvenuto: deve coinvolgere anche, e prima ancora, la dimensione locale.
L’effettività dei diritti deve fare i conti soprattutto con il territorio, quindi con il principio di prossimità, che a sua volta si realizza nella cosiddetta sussidiarietà orizzontale.
La pari dignità sociale, insomma, si ricollega esplicitamente alla sussidiarietà orizzontale (quella della società civile e del c.d. terzo settore), ribadita dall’art. 118 della Costituzione riformato nel 2001, dov’è collocata a fianco della sussidiarietà verticale (quella istituzionale).
Riflettere, in tempo di crisi, sulla pari dignità è un’occasione per reagire e per superare le paure che ci turbano: ad esempio, per tenerne conto al momento di definire nuovi modelli e regole di comportamento - guardando anche al privato-sociale e all’impresa sociale - nel rapporto tra imprese e consumatori, tra finanza e investitori, tra credito e risparmio.
E’ un’occasione per superare le contrapposizioni tra Stato e mercato, tra pubblico e privato, che hanno “giustificato” lacune e dimenticanze di ciascuno di questi mondi in tema di diritti fondamentali.
E’, infine, un’occasione per rafforzare gli spazi di intervento sul territorio, utilizzando come una leva il mix di sussidiarietà orizzontale e verticale.
Il coinvolgimento del territorio nell’attuazione dei diritti è il modo migliore per radicarli, perché vengano assimilati anche sul piano culturale e del consenso sociale, anziché essere percepiti come forme di assistenzialismo o, peggio, come sprechi da sottoporre a tagli e riduzioni.
Anche in tema di diritti, l’impegno e il controllo (da parte) del territorio accrescono la sicurezza.
Perfino i meno sensibili alle questioni dei diritti umani dovrebbero trame buone ragioni per investire sulla dignità.